Yuts and Culture, il funk spirituale del Salento a Brindisi

La band all'interno delle Manifatture Knos, Lecce

Back to ma funk: l’album che mescola reggae, soul e groove puro. Il sound degli Yuts and Culture, domani all’ex Convento Santa Chiara

di Antonio Portolano

BRINDISI – «E così come ciechi camminiamo tra ciechi, urtandoci uno con l’altro». Questa frase non è solo un verso di una canzone. È una profezia, uno specchio impietoso dell’epoca che viviamo. È anche una sintesi perfetta della poetica degli Yuts and Culture, band salentina capace di raccontare, attraverso il proprio sound contaminato e spirituale, la fragilità e la bellezza dell’essere umano moderno.

Yuts and Culture non fanno solo musica. Creano vibrazioni, onde sonore che si trasformano in messaggi universali. La loro musica nasce da una ferita e da un’esigenza: raccontare verità scomode e personali attraverso ritmi potenti, melodie accoglienti e testi capaci di scavare a fondo. È questo che ha reso la band una delle realtà più luminose della scena pugliese e nazionale, grazie alla capacità di fondere radici reggae, groove funk, anima soul e brillantezza R’n’B, mantenendo sempre quella spiritualità che li rende unici.

Un sound travolgente

Dopo aver travolto il pubblico delle Officine Cantelmo di Lecce, il 31 gennaio scorso, con un sold out memorabile, Yuts and Culture sono pronti a riportare il loro rituale sonoro a Brindisi. Domani, alle 21, Santa Spazio Culturale (l’Ex Convento Santa Chiara) diventerà il cuore pulsante del funk, del reggae e del soul, ospitando un concerto che è già leggenda prima ancora di accadere.

L’evento rientra nella programmazione di Santa Live Music 2025, la rassegna che celebra la musica live e la sua capacità di unire le persone, abbattendo ogni confine musicale e generazionale. La prenotazione è aperta su Eventbrite, con possibilità di riservare il proprio ingresso anche tramite WhatsApp al numero 0831 1561076. È richiesto un contributo all’ingresso per supportare la musica dal vivo, quella vera, fatta di sudore, passione e confronto diretto con il pubblico.

Questo non è un concerto qualsiasi. È un incontro tra la band e la sua gente. È un rito collettivo in cui ogni battito di cassa diventa un battito del cuore. È la dimostrazione che la musica è ancora il linguaggio più universale che abbiamo. E il 14 marzo a Brindisi, gli Yuts and Culture sono pronti a parlarci. Con il corpo, con la voce, con il groove.

Chi sono gli Yuts and Culture

Yuts and Culture non è solo il nome di una band. È una dichiarazione d’intenti. È un manifesto musicale e culturale. È l’incontro tra radici e contaminazione, tra identità e viaggio, tra l’anima calda del Salento e il respiro universale della black music.

Nati nel cuore della Puglia, in quel Sud che pulsa di ritmo e accoglienza, gli Yuts and Culture affondano le proprie origini nella cultura reggae roots. È da lì che tutto ha inizio: le vibrazioni in levare, la spiritualità che attraversa ogni nota, il richiamo alla verità cruda e semplice che il reggae ha sempre incarnato. Non è solo un genere, è un modo di guardare il mondo, di respirare e di vivere la musica come atto collettivo.

Ma Yuts and Culture sono spiriti inquieti, anime curiose che non sanno fermarsi. Presto quella base reggae comincia a sporcarsi, ad accogliere nuove voci, nuovi colori, nuovi ritmi. Arriva il funk, con il suo groove denso e carnale. Arriva il soul, che porta l’introspezione e la sensualità delle melodie nere. Arriva anche l’R’n’B, con il suo battito morbido e contemporaneo.

Il risultato è un suono liquido, mutevole e potente. È una miscela di pulsazioni seventies e visioni moderne. È la musica del meticciato, nel senso più nobile del termine. È la colonna sonora di un tempo che non ama le etichette, ma cerca solo autenticità.

Per gli Yuts and Culture, ogni canzone è un atto di sincerità. Ogni arrangiamento è un confronto collettivo. Ogni concerto è un rito comunitario. Non ci sono maschere, non ci sono sovrastrutture. C’è solo la verità di quello che sono: musicisti, salentini, cittadini del mondo, amanti della melodia e servitori del groove.

Il loro messaggio è scritto nel nome

Il loro nome stesso è un messaggio. Yuts, nello slang giamaicano, indica i giovani. Culture, invece, è l’eredità spirituale e musicale che si tramanda. Insieme, è la promessa di un ponte tra passato e futuro, tra le radici e ciò che verrà, tra chi ha tracciato la strada e chi oggi la percorre con nuove visioni.

Chi ascolta Yuts and Culture non ascolta solo musica. Ascolta una storia che nasce in una terra precisa, ma che parla la lingua universale del ritmo e dell’anima. È un’esperienza sensoriale che mescola sudore e spiritualità, danza e meditazione, lotta e bellezza.

Dalle piccole sale prove di provincia alle grandi rassegne live, passando per lo studio di registrazione di Brindisi e i grandi festival pugliesi, la band ha sempre portato avanti una missione precisa: creare empatia, tendere la mano all’ascoltatore e invitarlo dentro quel cerchio magico dove il suono non divide, ma unisce.

Yuts and Culture sono, oggi, una delle realtà musicali più originali e riconosciute della nuova scena musicale pugliese. Hanno saputo creare un’identità forte, fatta di coerenza e libertà, di radici e innovazione. Non c’è mai stato un calcolo, solo la voglia di essere veri, dentro e fuori dal palco.

La loro storia è un manifesto di resistenza musicale. In un tempo dominato dalle hit usa e getta, Yuts and Culture scelgono di essere profondi. Scegliere la melodia come luogo di incontro e non di fuga. Scelgono di portare avanti un discorso musicale lungo e coerente, fatto di album suonati davvero, di concerti sudati e vissuti, di confronti faccia a faccia con chi ascolta.

Non sono solo una band, sono un messaggio. Chi li ascolta non si limita ad applaudire. Si riconosce, si specchia, si sente parte di una storia che riguarda tutti.

La band al completo

Non esiste suono senza mani che lo creano. Non esiste groove senza corpi che lo abitano. Gli Yuts and Culture non sono solo una band, sono un collettivo sonoro, un organismo vivente dove ogni musicista è una voce necessaria, un pezzo di quel mosaico sonoro che rende unico il loro stile. Ogni nota, ogni ritmo, ogni melodia è il risultato di un dialogo collettivo, di notti passate a discutere, provare, distruggere e ricostruire la musica insieme.

Vincenzo Baldassarre, la voce, è l’anima lirica e spirituale della band. Il suo canto è una preghiera urbana, un richiamo alla verità interiore che si mescola al groove. Non è un frontman qualsiasi, è il narratore di una storia collettiva. Ogni parola che canta è passata prima attraverso il suo cuore e poi sulle corde vocali. È la sua voce a rendere viscerale ogni brano, a far vibrare il pubblico su quella sottile linea tra bellezza e dolore.

Accanto a lui, a costruire il motore ritmico, c’è Diego Martina. La sua batteria non accompagna semplicemente: guida. Ogni colpo di cassa è un richiamo ancestrale. Ogni rullata è una finestra aperta sull’anima più profonda del funk e del reggae. Il suo drumming è potente e fluido, nervoso e meditativo, capace di passare dal battito giamaicano all’impeto funk senza mai perdere coerenza.

Se la batteria è il cuore, il basso di Pierpaolo Polo è il sangue che scorre. Il suo groove è il filo conduttore che tiene unita la miscela sonora degli Yuts and Culture. Ogni linea di basso è studiata, scavata, vissuta. È basso melodico e pulsante, sempre presente eppure mai invadente, capace di far ballare il corpo e meditare la mente.

Alla chitarra c’è Alberto Zacà, architetto delle armonie e delle sfumature. Le sue corde disegnano paesaggi sonori che attraversano epoche e continenti. Dal tocco pulito del reggae al funk più graffiante, passando per gli arpeggi soul e le esplosioni psichedeliche, ogni sua nota è colore e materia. È il ponte tra le radici e le nuove direzioni sonore della band.

Le tastiere sono un viaggio a quattro mani. Da una parte c’è Daniele Arnone, dall’altra Claudio “Kalad” Marra. Insieme creano la tela armonica su cui tutto si appoggia. Le loro mani danzano sui tasti con una sincronia magica: ora evocano gli Hammond roventi del soul anni ’70, ora disegnano tappeti onirici di synth moderni. Sono la memoria e il futuro, intrecciati in ogni accordo.

Il battito primordiale, quello che viene dalla terra, è nelle mani di Angelo “Japan” De Grisantis, maestro delle percussioni. Ogni conga, ogni timbale, ogni shaker è un richiamo alla radice africana della musica black. Il suo tocco è fisico e spirituale allo stesso tempo: è il contatto con la terra, è la pulsazione che arriva prima della musica stessa.

I fiati sono un soffio caldo e travolgente, grazie a Carlo Gioia al sax e Lorenzo Lorenzoni al trombone. I loro strumenti non decorano: raccontano. Sono voci parallele, che rispondono al canto di Vincenzo, lo amplificano, lo commentano. Il sax è sudore e blues, il trombone è potenza e malinconia. Insieme sono vento caldo su un ritmo bollente.

A dare luce e profondità alle armonie vocali ci pensano Carmen Melcarne, Liana Lamarra, voci femminili che accarezzano e squarciano, dolci e potenti, capaci di trasformare ogni ritornello in un coro da rito collettivo.

Insieme, sono un’orchestra moderna, capace di far dialogare strumenti e stili, passato e futuro. Non c’è un ruolo secondario. Ogni elemento è essenziale. Ogni musicista porta con sé una storia, un suono, una visione. Gli Yuts and Culture sono una tribù sonora, un corpo unico fatto di tante anime, ognuna delle quali contribuisce a creare quella miscela unica e inimitabile che è la loro firma sonora.

Dal successo di Lecce al live di Brindisi

Ci sono concerti che sono semplici esibizioni. E poi ci sono concerti che diventano esperienze collettive, qualcosa che va oltre la musica, che entra nel corpo delle persone e lo fa vibrare. È esattamente quello che è successo il 31 gennaio 2025 alle Officine Cantelmo di Lecce, quando gli Yuts and Culture hanno presentato ufficialmente il loro nuovo album “Back to ma funk”.

Non è stata una serata qualunque. È stato un rito di passaggio. Un ritorno a casa dopo un lungo viaggio di ricerca e sperimentazione. Un pubblico caldo e partecipe ha riempito la sala fino all’ultimo posto, regalando alla band uno straordinario sold out che ha il sapore di una consacrazione.

Le Officine Cantelmo, con la loro storia di palco importante e snodo culturale del Salento, sono state lo scenario perfetto per una band che di cultura e contaminazione ha fatto la propria bandiera. Ogni brano è stato accolto come un dono, ogni groove è diventato un invito a ballare, ogni assolo una piccola confessione pubblica.

Dopo questo trionfo, gli Yuts and Culture non si fermano. Il viaggio continua, questa volta direzione Brindisi la band porterà tutta la potenza di “Back to ma funk” e la propria storia musicale all’interno di uno dei luoghi più suggestivi della città: l’Ex Convento Santa Chiara.

Santa Live Music 2025

L’evento fa parte della rassegna Santa Live Music 2025, un progetto dedicato a portare la grande musica dal vivo nei luoghi più belli e simbolici di Brindisi. Non un semplice concerto, ma un’esperienza immersiva: storia e modernità che si incontrano, in uno spazio carico di memoria e trasformato per una sera nel tempio del funk e della spiritualità musicale.

Per partecipare, è possibile prenotare direttamente su Eventbrite. In alternativa, è attivo un servizio di prenotazione tramite WhatsApp al numero 0831 1561076. È previsto un contributo all’ingresso, un piccolo gesto per sostenere la musica indipendente e le realtà artistiche che danno linfa vitale al territorio.

Quella di Brindisi sarà molto più di una data nel tour. Sarà un momento di incontro tra la band e la propria terra, tra la musica e le persone, tra le radici e l’evoluzione. Sarà un concerto totale, dove il suono diventa esperienza sensoriale, la parola diventa preghiera urbana e la danza diventa atto liberatorio. Ogni spettatore che entrerà in quel cerchio sonoro ne uscirà trasformato.

Back to ma funk, il nuovo album

Back to ma funk non è solo un titolo. È una dichiarazione di intenti. È un richiamo, un ritorno alle radici più autentiche, l’abbraccio definitivo con il groove che da sempre scorre nelle vene degli Yuts and Culture. Ma è anche molto di più. È un punto di arrivo e un nuovo inizio, il culmine di un percorso di crescita, contaminazione e maturazione collettiva.

L’album esce sotto l’etichetta Irma Records. Grazie a Irma Records sono andati in stampa vinile e cd.

Uscito ufficialmente il 31 gennaio 2025, disponibile in CD, vinile e digitale su tutte le principali piattaforme, “Back to ma funk” è un album profondo e pulsante, fatto di carne e spirito, di terra e di cielo. Un lavoro di studio, ma soprattutto di vissuto. Dodici tracce, di cui due completamente strumentali, che attraversano soul, funk, reggae, jazz e R’n’B, restituendo all’ascoltatore una musica totale, che non si lascia ingabbiare in un genere, ma respira libera.

Ogni brano è nato tra le pareti dello Yeahjasi Spazio Recording di Brindisi, sotto la guida attenta di Paolo Montinaro, che ha saputo tradurre la complessità emotiva e sonora della band in un suono caldo e avvolgente, vintage e modernissimo al tempo stesso. Il mastering finale è stato affidato a Giovanni Versari (La Maestà Studio), uno dei nomi più prestigiosi della scena musicale italiana.

Back to ma funk non è un disco costruito a tavolino. È un album sudato e vissuto. È il frutto di lunghe sessioni in sala prove, di notti passate a litigare e riconciliarsi, di scelte musicali meditate e di improvvisazioni magiche nate sul momento. È il suono di una band che vive la musica come un confronto sincero e continuo.

Carlo Gioia sax contralto

«Abbiamo scelto questo titolo perché il funk è stato il nostro primo vero amore, dopo il reggae» raccontano gli Yuts and Culture. «È quel groove ancestrale che ci ha insegnato a suonare come una cosa sola, un unico corpo che respira, suda e vibra insieme».

Ma Back to ma funk è anche un manifesto spirituale. È la ricerca di una verità profonda che va oltre il suono, oltre la tecnica. È il desiderio di tornare a una musica autentica, suonata con strumenti veri, con errori veri, con anime vere. È la risposta degli Yuts and Culture alla superficialità del presente, a quel consumo veloce di canzoni usa e getta che spesso svuota la musica di significato.

Musicalmente, il disco è un mosaico colorato, dove ogni tessera ha la sua forma e il suo sapore. Si parte da ritmi in levare che richiamano il reggae più puro, si passa per bassline grasse e profonde che pescano dal funk più nero, si sale su tappeti di tastiere soul calde e raffinate, e si arriva a esplosioni di fiati che ricordano le grandi orchestre black degli anni ’70.

Ogni strumento ha il suo spazio vitale. Ogni musicista lascia la sua firma in modo riconoscibile. Eppure, il risultato finale è un corpo unico, una creatura musicale che respira come un organismo vivente.

Non è un caso che il disco sia ricco di brani strumentali, dove la parola si ritira e lascia parlare il suono puro. È un atto di coraggio, un ritorno alla centralità della melodia e dell’improvvisazione, una scelta quasi politica in un’epoca dove spesso la musica è solo un supporto al testo. Gli Yuts and Culture, invece, credono nel potere evocativo della musica in sé. Credono che un groove, da solo, possa raccontare storie e smuovere anime.

La copertina dell’album

Anche la copertina e le grafiche raccontano questa filosofia. Firmate da Fabio Luigi Conti, in arte Discographica, sono un’esplosione di colori e segni che evocano psichedelia, funk e tradizione. Non è un semplice artwork, è una porta visiva che introduce l’ascoltatore nel mondo sonoro della band.

Ascoltare Back to ma funk non è un’esperienza passiva. È un viaggio in cui ci si sporca le mani, in cui si balla, si riflette, si scava dentro. È la dimostrazione che la black music, quella vera, può nascere anche nel cuore del Salento. Perché il funk non è una questione geografica. È un’attitudine, una pulsazione che appartiene a chiunque voglia vivere la musica come un atto di verità.

La voce della band

Le parole degli Yuts and Culture sono pietre sonore. Ogni dichiarazione è il riflesso di una scelta musicale consapevole, di un’identità che si è formata negli anni e che oggi è diventata una bandiera da esibire con orgoglio. Parlare della loro musica è come raccontare la loro vita, perché non c’è differenza tra quello che sono e quello che suonano.

«La nostra musica è spirituale» afferma senza esitazioni Vincenzo Baldassarre, voce e autore dei testi. «Non spirituale in senso religioso, ma nel senso più profondo del termine. Cerchiamo l’empatia, vogliamo che chi ascolta non si senta spettatore, ma parte di un rito collettivo. Non ci interessa impressionare con la tecnica. Ci interessa comunicare verità, anche quando è scomoda».

Un concetto che ritorna spesso nei discorsi della band è proprio quello di verità. Una verità che è al centro di ogni brano, di ogni scelta stilistica, di ogni parola cantata. «Ci capita di litigare sulle canzoni» racconta Pierpaolo Polo, bassista e colonna ritmica. «Ci mettiamo a tavolino e ci chiediamo se quella melodia, quel groove, quella parola sono veri per noi. Se non lo sono, buttiamo via tutto e ricominciamo. Preferiamo cancellare una canzone intera piuttosto che suonare qualcosa che non ci rappresenta».

Lavorare così non è semplice. Ma è l’unica strada possibile per una band che ha scelto di non scendere a compromessi. «Non siamo una band da playlist facili» aggiunge Diego Martino, batterista e motore ritmico. «La nostra musica è costruita nel tempo e nello spazio. Ci piace pensare che ogni nostro brano sia un pezzo di vita, un documento di quello che stavamo vivendo in quel momento».

E proprio sul concetto di tempo si innesta una riflessione fondamentale: quella sull’importanza di suonare insieme. In un’epoca in cui troppi dischi nascono a distanza, incollando parti registrate separatamente, gli Yuts and Culture rivendicano la centralità della sala prove e delle jam collettive. «Abbiamo bisogno di guardarci negli occhi mentre suoniamo» spiega Alberto Zacà, chitarrista. «Le canzoni nascono lì, tra un caffè e una discussione. Non ci interessa fare musica perfetta. Ci interessa fare musica viva».

La ricerca della contaminazione

Un altro concetto chiave è quello di contaminazione. Perché, pur restando fedeli alle radici reggae e funk, gli Yuts and Culture non hanno mai smesso di assorbire stimoli esterni. «Ogni volta che ascoltiamo qualcosa di nuovo, cerchiamo di capire cosa può insegnarci» dice Claudio “Kalad” Marra, tastierista. «La nostra musica è come una spugna, assorbe e restituisce. Non abbiamo paura di cambiare, perché cambiare è l’unico modo per restare sinceri».

Ma forse la dichiarazione più bella arriva proprio quando si parla del pubblico. Perché gli Yuts and Culture non suonano per sé stessi. Suonano per chi ascolta. «Quando siamo sul palco, la musica non ci appartiene più» spiega Angelo “Japan” De Grisantis, percussionista. «Diventa di chi balla, di chi canta, di chi chiude gli occhi e si lascia andare. È per questo che ci emozioniamo ancora ad ogni concerto. Perché è come se la nostra storia diventasse la storia di tutti».

Il significato dei brani

La musica degli Yuts and Culture è un racconto frammentato in canzoni. Ogni brano è una pagina di diario, un pezzo di pelle inciso con note e parole. Non esistono riempitivi o testi scritti per convenienza. Ogni canzone nasce da una storia vera, da un’esperienza vissuta, da una ferita aperta o da una consapevolezza raggiunta. È musica che respira, soffre, guarisce.

I hope it was worth it, l’anima spogliata

Tra i brani più intensi di sempre c’è “I Hope It Was Worth It”, un viaggio dentro il dolore puro e senza filtri di un amore perduto. Non è la solita canzone d’amore. È una dissezione emotiva, un’autopsia dei sentimenti che restano dopo che tutto è crollato.

«Quando perdi qualcuno, inizi a scavare dentro di te» racconta Vincenzo Baldassarre. «Cerchi di capire cosa ti manca davvero. Ti accorgi che quel vuoto non è solo per quella persona, ma è un vuoto antico, qualcosa che viene da molto prima. L’amore è solo il detonatore».

Musicalmente, il brano è ipnotico. Basso e batteria costruiscono un loop circolare, come un pensiero ossessivo che non si riesce a scacciare. Le tastiere creano un’atmosfera sospesa, come se il tempo si fermasse in quel momento in cui si realizza che è davvero finita. E poi arriva la voce: cruda, fragile, spogliata di ogni difesa. È l’anima che parla, senza trucco, senza filtro.

Il legame con Marvin Gaye

È proprio Marvin Gaye l’ispirazione principale per I Got You. La band ha voluto omaggiare il suo capolavoro del 1976, “I Want You”, riportando in vita quella sensualità spirituale in una chiave attuale. La voce accarezza, il groove stringe, mentre il testo lancia una verità scomoda: senza anima, siamo destinati a perderci.

I got you, la denuncia sociale

Con “I Got You”, gli Yuts and Culture cambiano registro. Dalla fragilità personale si passa alla cecità collettiva. Il brano è una sferzata contro una società che corre senza vedere dove sta andando, una società spiritualmente cieca, prigioniera della ricerca ossessiva di piacere e ricchezza.

«Viviamo come ciechi tra ciechi» dicono gli Yuts. «Ci urtiamo, ci facciamo male, senza neanche capire perché». È una critica dura, ma anche un invito a fermarsi, a guardarsi davvero negli occhi.

Dal punto di vista sonoro, il brano è funky e sporco, con una pulsazione quasi tribale. È una danza primitiva e moderna insieme, in cui la musica stessa diventa urto, scontro, collisione. I fiati sono taglienti, la batteria è ossessiva, la chitarra è nervosa. È una musica che non vuole confortare. Vuole svegliare.

Naked truth, la filosofia della band

“Naked Truth” è molto più di una canzone: è la dichiarazione di esistenza degli Yuts and Culture. È il loro manifesto. È la verità nuda e cruda, senza fronzoli. È la loro scelta di non nascondersi mai dietro mode o facili successi.

Il brano racconta proprio questa ricerca ossessiva della verità, nel suono come nelle parole. È una canzone che dice al pubblico: questi siamo noi, senza maschere.

Anche la musica è costruita seguendo questa filosofia. Gli strumenti suonano crudi e diretti, senza troppi effetti. Il groove è essenziale, la melodia è pura e diretta. È una canzone che sembra registrata in presa diretta, senza sovraincisioni. È la band che suona per te, senza trucco e senza inganno.

Soul almighty, la cover rivoluzionata

E poi c’è “Soul Almighty”, la cover di Bob Marley che gli Yuts and Culture hanno trasformato in una bomba funk. È una rilettura rispettosa e coraggiosa allo stesso tempo. Rispetta lo spirito profondo di Marley, ma lo proietta in un altro universo sonoro, quello delle grandi funk band anni ’70.

«Abbiamo voluto portare Marley a ballare in una dancefloor funk» racconta Diego Martino. «Immaginate Bob Marley che suona con Sly & The Family Stone. È questo il nostro omaggio».

Basso grasso e sinuoso, batteria ballabile, fiati sfacciati, chitarra nervosa e sincopata: è Marley, ma è anche qualcosa di completamente nuovo. È l’essenza stessa degli Yuts and Culture: prendere la tradizione e spingerla avanti, senza paura di contaminare, sporcare, reinventare.

L’arte visiva di Davis Albert Valle

La musica degli Yuts and Culture non si ferma al suono. È un linguaggio che abbraccia tutti i sensi. Non c’è solo ritmo e melodia: ci sono immagini, colori, movimenti che vibrano insieme alle note. È una musica che si guarda, oltre che ascoltarsi. E questa visione espansa prende forma concreta grazie al lavoro visionario di Davis Albert Valle, l’artista visivo e videomaker che accompagna la band nella costruzione di un immaginario unico e riconoscibile.

Il cuore pulsante di questo dialogo tra suono e immagine è il visual video di “I Got You”, un’opera che non è un semplice videoclip musicale, ma un’esperienza visiva immersiva, nata da un’idea potente e primordiale: le pitture rupestri che prendono vita al ritmo del funk.

Davis Albert Valle ha scelto di lavorare con una tecnica artigianale e arcaica: lo stop motion. Pennellata dopo pennellata, ha dipinto figure tribali ispirate alle antiche pitture murali, forme essenziali e potenti, segni ancestrali che raccontano di danze e riti collettivi. Ogni immagine è stata scattata, spostata, modificata, in una sequenza infinita di micro-movimenti, fino a creare un flusso visivo che danza al ritmo del brano. Non è solo una questione estetica. È una dichiarazione di poetica. Quella scelta di dipingere a mano, fotogramma dopo fotogramma, richiama esattamente la filosofia degli Yuts and Culture: fare le cose con le mani sporche di colore e di sudore, evitando scorciatoie digitali e cercando sempre un rapporto fisico e diretto con l’arte.

Il risultato è ipnotico e vibrante: una danza tribale che si fonde al groove moderno della band, una fusione tra passato e presente che racconta alla perfezione l’identità contaminata degli Yuts and Culture.

Ma l’immaginario visivo non si ferma al video. Tutto il progetto grafico di “Back to ma funk” segue la stessa linea narrativa, grazie al talento di Fabio Luigi Conti, in arte Discographica, che ha curato la copertina e tutte le grafiche legate all’album. Le sue illustrazioni sono esplosioni di colore e geometrie fluide, che richiamano sia la psichedelia degli anni ’70, sia la cultura visiva black di quell’epoca d’oro in cui la musica non era mai separata dall’arte grafica.

«Abbiamo voluto che ogni elemento di questo progetto parlasse la stessa lingua» racconta Vincenzo Baldassarre. «Volevamo che chi ascolta il disco, chi guarda il video e chi sfoglia il vinile entri dentro lo stesso viaggio, senza soluzione di continuità. Il suono, le immagini, i colori: tutto è parte della stessa esperienza».

Per gli Yuts and Culture, un brano non è mai solo una canzone. È un atto culturale completo, un’opera che vive attraverso tutti i linguaggi. Ed è proprio questa visione sincretica e tribale, questa capacità di unire suono e immagine in un unico respiro, che li rende una delle band più originali e visionarie della scena italiana.

Dove ascoltare e acquistare la musica

Chi vuole scoprire (o riscoprire) la storia sonora degli Yuts and Culture può farlo facilmente su Spotify, dove sono disponibili tutti i brani, dai primi passi del gruppo fino al più recente “Back to ma funk”. Spotify non è solo una piattaforma: è un archivio vivo che racconta come questa band è cresciuta, evoluta, contaminata, diventando ciò che è oggi.

C’è poi chi non rinuncia al fascino del formato fisico, quel gesto antico e prezioso di sfogliare un booklet, osservare da vicino una copertina, ascoltare un disco dall’inizio alla fine, senza saltare di traccia in traccia. Per loro, “Back to ma funk” è disponibile in CD e vinile, acquistabile direttamente su Mondadori Store, il canale che lega la band al pubblico più affezionato, quello che vuole toccare la musica con mano.

In un mondo in cui la musica si consuma troppo in fretta, dove le playlist frammentano le storie e i dischi diventano poco più di raccolte casuali di singoli, gli Yuts and Culture scelgono la via opposta. La loro è musica da ascoltare tutta intera, con pazienza, lasciando che ogni brano apra la porta al successivo, in un flusso continuo di significati e vibrazioni.

«Il nostro sogno» racconta Vincenzo Baldassarre, «è che chi ascolta il nostro disco lo faccia come si faceva una volta: con calma, magari con un buon bicchiere accanto, lasciando che la musica entri e si prenda il suo tempo. Sappiamo che non è una cosa per tutti. Ma noi non vogliamo essere per tutti. Vogliamo essere per chi cerca qualcosa di vero».

Per chi non vuole perdersi neanche un aggiornamento, oltre ai canali di ascolto, la band è attivissima sui social:

  • Instagram, dove condividono dietro le quinte, prove, riflessioni e momenti di vita vissuta;
  • Facebook, punto di riferimento per le news ufficiali, le date dei concerti e le recensioni;
  • YouTube, il luogo dove musica e immagini si fondono, grazie ai videoclip e ai visual video curati da Davis Albert Valle.

Ascoltare Yuts and Culture non è mai un gesto neutro. È una scelta. È decidere di entrare in un universo sonoro e culturale che chiede attenzione, coinvolgimento e rispetto. Non è musica di plastica. È musica vera. E chi lo capisce, non la lascia più.

Daniele Arnone, tastiere

Appuntamento imperdibile il 14 Marzo a Brindisi

Segnate questa data: venerdì 14 marzo 2025. Quella sera, le antiche mura dell’Ex Convento Santa Chiara di Brindisi non saranno solo un luogo storico, ma diventeranno un tempio del groove, uno spazio sacro in cui reggae, funk e soul si fonderanno in un rito collettivo guidato dagli Yuts and Culture.

L’appuntamento è alle 21. Come partecipare? È semplice. Si può prenotare subito il proprio posto su Eventbrite, oppure inviando un messaggio WhatsApp al numero 0831 1561076. È richiesto un contributo all’ingresso, un piccolo atto di sostegno alla musica indipendente, quella che non vive di algoritmi, ma di corpi che ballano e cuori che battono.

Non sarà un semplice concerto. Sarà un rito collettivo, in cui il pubblico non sarà spettatore, ma parte viva e vibrante dello show. Ogni nota, ogni battito, ogni parola saranno un ponte tra palco e platea, fino a creare un’unica grande vibrazione, come accade nei veri concerti che lasciano il segno. Chi ha vissuto il live di Lecce sa già cosa aspettarsi. Chi non c’era, non può mancare questa volta. Perché il 14 marzo a Brindisi non è solo una data sul calendario. È un invito a entrare nel cerchio. A lasciarsi attraversare dal ritmo. A diventare, almeno per una sera, parte della tribù sonora degli Yuts and Culture.